La Torino dei Savoia, che la storia e la famiglia reale non ce ne vogliano, forse non ha la tradizione rinascimentale della Firenze dei Medici e forse ancora non supera neanche l’avanguardia della Milano degli Sforza, ma di fatto rimane una delle città più controverse, eleganti e impenetrabili del nostro paese.
Un’architettura che dai capolavori barocchi di Guarino Garini (Cappella della Sacra Sindone) e del messinese Juvarra (Basilica di Superga), esplode nell’Art Nouveau di Alessandro Antonelli e la sua Mole Antonelliana, simbolo della città unitamente al Lingotto ristrutturato da Renzo Piano.
Palazzi regali e piazze che in un disegno urbanistico ordinato e razionale, porta sotto le Alpi l’eleganza stilistica delle grandi capitali europee.
Nel cuore di Torino esiste una via giardino, la Via Carlo Alberto, una vera e propria opera che nei secoli si è evoluta e contraddistinta nella sua forte componente di arre verdi e giardini.
Il nome deriva dal Re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, settimo principe di Carignano che sposò Maria Teresa d’Asburgo.
I Savoia- Carignano sono il ramo cadetto di Casa Savoia, dal quale discendono tutti i re d’Italia. In questa via, che a tutt’oggi non è solo un polmone verde del centro torinese, ma un’area che fa dell’estetica architettonica e naturale il suo fascino pubblico, da quattro generazioni racconta la storia illustre di Torino il Grand Hotel Sitea.
Siamo in un elegante palazzo liberty che, grazie alla famiglia Buratti, da novant’anni esercita l’arte dell’accoglienza vedendo le proprie sale vive di storie di passaggio come quelle di Rita Levi Montalcini e Marcello Mastroianni, o di Banana Yoshimoto, Louis Armstrong e Ray Charles.
Un lusso, a tratti raffinato e in altri grossolano, che grazie a una naturalezza informale e alla direzione di Fabrizio Musso, diventa cultura.
Qui entri, trovi un sorriso e il New York Times da sfogliare mentre ti rilassi su un divanetto, prima di andare a cena al Carignano.
Così si chiama il ristorante una stella Michelin del Grand Hotel, Carignano.
Per ovvi motivi di celebrazione e appartenenza storica, nonché di assoluta eleganza.
L’ambiente è riservato e vi si accede da una porticina che perfettamente si confonde nella hall. Una sala contenuta capace di accogliere, su grandi tavoli circolari e ben distanti, circa venti persone.
Un’esclusività ben raccolta da uno stile minimalista, in contrasto agli sfarzi architettonici e alle opere, di un artista locale, installate sulle pareti. Il legno è la materia principale.
In sala i sincronismi partono dalla cucina immediatamente adiacente e da un piccolo tavolo di servizio centrale, centrati nei tempi e ordinati senza essere invadenti.
La cucina è nelle mani di Fabrizio Tesse e del suo braccio destro Francesco Polimeni.
Siamo in un’atmosfera ricercata, ma essenziale, siamo seduti al tavolo di una storia secolare e mentre tutto ti gira intorno con l’onere che gli appartiene, il gusto anche estetico che viene messo nei piatti è un rompere le righe divertente e immediato.
Lo chef è Milanese di Nascita, ligure di origini e gastronomicamente formato alla corte di Cannavacciuolo per otto anni. La sua prima stella, Fabrizio Tesse, la prende nel 2015 in provincia di Novara alla Locanda di Orta, appena rientrato dalla Spagna e due anni prima di partire per l’oriente, tra Hong Kong e Shangai.
Arriva al Carignano e in due anni prende la sua seconda stella, con un solo segreto che lui chiama i “codici del gusto”.
Un alfabeto gastronomico che ogni chef ha a disposizione e che poi declina con la sua personalissima calligrafia fatta di tecnica e istinto.
Questa potrebbe essere la definizione migliore per la cucina di Tesse, istintiva. Laddove ogni piatto viene scritto
tecnicamente con l’intento, riuscito, di trasmettere esattamente quel gusto che avresti voluto scegliendolo.
Gli amuse bouche ne sono da subito un’avvisaglia, un benvenuto che assomiglia alla versione scalabile di un piatto completo, ma è la Capasanta marinata, rape, tuorlo d’uovo e consommé di patata arrosto, che apre impostando il filo conduttore di una cena che vedrà terra e mare incontrarsi con gradevolezza.
Un piatto dalla delicata variazione di consistenze, dove gli acuti delle marinature scompongono i diversi gradi di
scioglievolezza e rimarcano la sensazione di arrosto.
Nel percorso scelto di degustazione segue la Quaglia con foie gras, tartufo nero, mela cotogna e amaranto.
Un ‘estetica verticale sul bianco puro di una ceramica marezzata, parte da un fondo di carne davvero intenso dove la qualità del burro si esprime, senza essere pesante al palato, in componenti aromatiche gradevoli.
La carne ha una cottura tecnicamente perfetta e gli umidi della carne arricchiscono l’acida dolcezza della mela cotogna.
Una serie breve ma intensa di bocconi corposi, grazie anche al foie gras non eccessivo, che nonostante la notevole componente grassa rimane pulita e allo stesso tempo intensa.
Forse nell’immediato rimane latente il tartufo, che torna solo in una terrosa persistenza finale.
Gli Gnocchi di seppia in brodo, funghi ostrica, kaffir, lime e caviale, agevolano ancora di più la pulizia leggera del palato dopo la quaglia.
Un primo piatto fresco con ben distinte note sapide a contrasto, tra il fondo brodoso e il caviale che, nonostante sia servito in un piatto caldo, rilascia le note di mare necessarie a dare carattere. Lavorazione sugli gnocchi di seppia di grande levatura tecnica.
Il secondo primo piatto, scelto in aggiunta al percorso, è un Fusillone con baccalà, Prescinseua e nduja di Spilinga. La Prescinseua, o cagliata genovese, è un formaggio acidulo a metà tra ricotta e yogurt che oltre a rendere omaggio alle origini dello chef, assorbe le note dolci e piccanti della nduja e della cipolla rossa di Tropea.
La Calabria è nelle origini del giovane sous chef Francesco Polimeni e questa connivenza di tradizioni, in un solo piatto, rende ancora più gustosa l’ottima mordenza della pasta. Piacevole la croccantezza della salicornia a guarnire.
Triglia alla genovese e leggera bouillabaisse, il simbolo di una cena di carattere perché è proprio in questa fondina, sempre di bianco purissimo, che si esprime esattamente la nota più forte e di carattere della cena.
Quel filo conduttore tra mare e terra qui si sovraccarica e accende le papille gustative, tenendole in assoluto stato di equilibrato appagamento.
Sapidità, dolcezza, ferrosità e sapore di mare, si inseguono in bocconi pieni e vigorosi dove la salsa ha un gusto deciso e la spugnola servita affianco della triglia, ripiena di crema di scampo e cardoncello, bilancia simmetricamente tutte le intensità degli ingredienti.
L’ultimo baluardo delle corse salate è un Galletto servito con puntarelle, ragù di animelle d’agnello alla sabauda e salsa rubra.
Il piatto che prevede più lavorazione e tempo, soprattutto per il galletto che passa per due diverse cotture e una fase di ripieno, anche se è il ragù di agnello a rubare la scena per intensità dei sapori e leggerezza.
Un bilanciamento perfetto impreziosito dalla freschezza e dalla croccantezza delle puntarelle, a pulire anche una buona salsa rossa a base di peperoni.
Anche se può rientrare nella schiera dei super classici, il Soufflé al miso scuro e vaniglia gelato alla tatin di pere nashi, è una vera e propria finezza tecnica di gran gusto.
Tecnicamente eccellente, salsa al miso scuro intensa e piacevolissima nella sua nota calda, in gran contrasto con un gelato sublime. Nulla da eccepire.
Se dovessi attribuire un merito personale alla cucina del Carignano, sarebbe la sua universalità. La capacità di conquistare nel gusto chiunque si sieda alla tavola, senza perdere di vista quella tecnica di costruzione di un piatto che coinvolge i palati più strutturati.
Nella Torino esoterica, quella dei faraoni e dei re, nella capitale storica dell’automobile italiana tra le strade eleganti e i giardini regali che circondano il Grand Hotel Sitea, nel ristorante Carignano lo chef Fabrizio Tesse e il suo sous chef Francesco Polimeni servono una cucina autentica e appagante.
Dal tavolo ci si alza liberi del peso della storia e divertiti dalla tecnica e dalla tradizione.
a cura della redazione