Riceviamo da parte dell’Adam Smith Society e volentieri pubblichiamo il seguente comunicato:
“L’origine dei Fondi Comuni di investimento (FCI) sembra risalire all’ultimo quarto del 18°secolo per l’iniziativa del mercante olandese A. van Ketwich che creò l’Eendragt Maakt Magt, un Investment Trust (cioè un fondo chiuso) per attirare piccoli investitori; era investito in obbligazioni internazionali e prestiti a piantagioni diversificate geograficamente.
Il primo dei fondi aperti deriva dall’apertura al pubblico, nel 1928, del MFS Massachusetts Investors’ Trust fondato a Boston quattro anni prima; ancora all’inizio degli anni’50 negli USA il loro numero era modesto e solo nella decade successiva è cominciata una crescita di qualche rilievo.
I FCI applicano varie strategie d’investimento e vengono gestiti tramite una selezione dei mercati, delle valute e dei titoli da inserire in portafoglio, e per questo vengono tutt’ora indicati come fondi attivi (FA); applicano commissioni consistenti in quanto le spese legate alla complessità dell’analisi, della gestione e dell’operatività sono rilevanti.
John C. Bogle, fondatore di Vanguard (una società di investimento), è stato uno degli imprenditori che ha contribuito – insieme ad altri imprenditori nei settori degli arredi, della moda e dei viaggi – a rendere accessibile un prodotto relativamente poco diffuso per la sua esclusività.
A metà degli anni ’70 intuì che il grande sviluppo economico del dopoguerra aveva molto allargato la platea dei risparmiatori e che un patrimonio finanziario non era più un privilegio di pochi (magari più propensi a sostenere costi elevati per la loro gestione); si rese anche conto che i prodotti più comuni, gli FCI, erano troppo costosi per il risparmiatore medio e che, come la ricerca accademica sottolineava, le elevate commissioni ne inficiavano il rendimento.
Bogle quindi lanciò nel 1976 il First Index Investment Trust, un fondo indice (FI) – cioè un fondo che replica integralmente la composizione di un indice di mercato1 – investito nell’indice S&P 500, aperto a tutti.
Col passare degli anni, vista anche la grande popolarità ottenuta dallo strumento di Vanguard, sono nate una pletora di fondi indice, avvicinati poi dagli ETF (Exchange Traded Funds) che si differenziano dai primi in quanto sono fondi chiusi le cui quote sono trattate in borsa (e quindi acquistabili e vendibili ogni giorno, a differenza dei fondi tradizionali che richiedono tempi a volte abbastanza lunghi per la sottoscrizione ed il riscatto).
Entrambi questi strumenti sono caratterizzati da commissioni molto più contenute di quelle dei fondi comuni, in quanto la selezione e la proporzione dei titoli nel fondo è predeterminata, le operazioni sul mercato vengono effettuate automaticamente tramite sistemi informatici, e quindi non necessitano di analisti per la ricerca delle opportunità più promettenti e di altre risorse per l’operatività.
Per questo motivo vengono chiamati fondi passivi, e la loro performance è allineata a quella dell’indice di riferimento quasi al 100% (in quanto è comunque presente una commissione, seppur modesta). Ora questi strumenti hanno superato i fondi attivi per le attività in gestione (oltre 12.000 mld $), ed il maggiore ETF che replica l’indice S&P 500 ha un patrimonio in gestione superiore a $ 500 mld.
Soprattutto negli Stati Uniti, nella seconda metà del secolo scorso, la ricerca accademica aveva elaborato varie teorie per spiegare l’andamento dei prezzi di borsa dei titoli azionari: dalla Random Walk (che sostiene la casualità dei prezzi) all’Efficient Market Hypothesis – EMH (che ipotizza che il prezzo di un titolo rispecchi tutte le informazioni disponibili in un determinato momento); in tempi più recenti sono emerse nuove ipotesi legate alla finanza comportamentale ed alla ricerca di tendenze statistiche della fluttuazione dei prezzi (analisi tecnica).
Alla base della gestione2 dei fondi attivi, fino alla nascita dei fondi indice c’era (e rimane tutt’ora) l’EMH, anche se l’evidenza empirica, una volta a disposizione una quantità sufficiente di dati, ha dimostrato che la gestione attiva non è riuscita nella maggior parte dei casi a battere l’indice di riferimento nel lungo periodo, confermando l’intuizione di Bogle.
Lo scorso anno, in tutto l’universo dei fondi (cioè comprensivi di tutte le strategie e strumenti di investimento) analizzati da Morningstar, meno del 47% dei fondi attivi hanno avuto risultati netti migliori di quelli passivi, e meno del 25% hanno avuto performance medie migliori nel decennio finito nel dicembre 2023. La causa principale di questo fatto è da ricercarsi nell’elevato livello delle commissioni caricate dai gestori3 (un FA azionario costa circa 70 US cents/anno ogni 100 US $ investiti, a fronte di circa 10 cents/anno per un FI), anche se fra il 2000 ed il 2020 il costo complessivo per un investitore nei fondi attivi si è circa dimezzato.
Sotto il profilo generale mi sorgono però alcuni dubbi sui fondi indice. Limitandoci in queste considerazioni al mercato statunitense – dove sono maggiormente diffusi – si può notare che la loro crescente popolarità attira continue sottoscrizioni, quindi maggiori acquisti dei titoli che compongono l’indice e conseguente salita dello stesso, stimolando nuovi investitori, etc., in un loop che può favorire la crescita di bolle speculative.
Se poi si considera il fatto che, per definizione, i titoli vengono inseriti in un indice con percentuali proporzionali alla loro capitalizzazione accade che, non essendoci valutazioni a carattere fondamentale da parte dei gestori dei FI, i loro acquisti tendono a gonfiare ulteriormente la valutazione delle maggiori capitalizzazioni nonché del loro peso sull’indice, anche qui con il rischio di eccessi; indicativo quanto successo alla borsa di New York negli ultimi anni, se si valuta la sua performance escludendo i 7 titoli tecnologici più importanti4: