«In Italia il settore ittico vale circa un miliardo e mezzo di euro, il 17,5% del sistema europeo nel suo complesso – spiega Anna Manca, presidente Confcooperative Liguria, vicepresidente di Confcooperative Nazionale e consigliere di Fondazione Banca d’Alba –. Il settore sta vivendo un momento di grande difficoltà, dovuto in parte al mancato ricambio generazionale e in parte agli effetti del cambiamento climatico, che ha ridotto del 30% il potenziale di pesca e per il quale si stima un impatto di due miliardi di euro nell’arco dell’ultimo decennio». Sfide che, secondo Manca, potrebbero anche aprire nuovi spiragli, a patto che «si investa in formazione, ricerca e innovazione»: formazione intesa sia come conoscenza della stagionalità del mare e delle specie meno ‘di moda’, eppure ugualmente preziose e interessanti in cucina, come sta facendo Slow Fish da anni, sia come capacità imprenditoriale necessaria ad assicurare durabilità economica all’impresa. Ricerca e innovazione intese come elementi di rinnovamento in grado di rendere il mestiere del pescatore nuovamente attrattivo per i giovani: «È un lavoro faticoso e non privo di pericoli, ma che con il dovuto sostegno può tornare ad avvicinare le giovani generazioni». Anche puntando sulla capacità aggregativa e sul senso di comunità: «L’80% degli impiegati del comparto pesca, sommando chi lavora in mare e chi si occupa di trasformazione a terra, è rappresentato dal settore cooperativo – sottolinea –. L’unione fa la forza e mettere insieme piccole realtà è un grande vantaggio, perché consente di ottimizzare risorse e investimenti». Occorre però anche un aiuto per far fronte alla competizione di Paesi extraeuropei dove chi pesca non è tenuto a osservare le norme che valgono in Europa: «È sacrosanto proseguire nella direzione della sostenibilità della risorsa pesca e della sicurezza alimentare, ma per prosperare serve aiuto».
«Cibo, mare e tradizioni millenarie sono al centro di Slow Fish e dell’attività del Masaf. Il futuro della pesca è una priorità del governo Meloni, del ministro Lollobrigida e mia, come testimoniato dall’impegno che fin dal primo giorno abbiamo dedicato alla tutela e al rilancio di un settore strategico per l’economia italiana e per tutta quella serie di valori inestimabili che è collegata al comparto» dichiara Patrizio La Pietra, sottosegretario di Stato al Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. «Il patrocinio del Masaf all’edizione 2025 di Slow Fish e la presenza del ministero con un’area degustazione aperta a tutti i visitatori della manifestazione confermano un’attenzione delle istituzioni politiche in linea con l’attività svolta quotidianamente in Europa e nell’organizzazione del G7 Agricoltura e Pesca, che lo scorso settembre a Siracusa è stato dedicato per la prima volta anche alle attività connesse al settore. Il rilancio del comparto della pesca al quale stiamo lavorando, dopo anni di scelte penalizzanti in sede europea, passa attraverso un cambio di paradigma nell’approccio all’attività dei nostri pescatori, custodi dell’ambiente al pari degli agricoltori e che grazie ad appuntamenti di rilevanza internazionale qual è Slow Fish, sono certo che potranno trovare ulteriori riscontri e occasioni di sviluppo, centrando l’obiettivo di una pesca sostenibile in termini ambientali ed economici».
«È semplice: se il mare non è in salute, i pesci scompaiono. E senza pesci, non può esserci pesca – sostiene la presidente di Slow Food Italia, Barbara Nappini –. Il fulcro della questione, dunque, sta nella gestione sostenibile del mare, che passa da un’amministrazione attenta delle risorse ittiche, dalla tutela dei fondali marini e dalla salvaguardia della biodiversità. È su questi aspetti che devono concentrarsi sia le politiche pubbliche sia l’impegno dei cittadini, spesso consapevoli del valore del mare solo durante le vacanze. Questa è la vera priorità: senza un ripristino degli ecosistemi marini, non c’è futuro. Anche perché rigenerare il mare non significa solo proteggere la biodiversità e i servizi ecosistemici, ma anche creare importanti opportunità economiche: secondo il World Economic Forum, oltre la metà del PIL globale dipende direttamente dalla natura. Una prospettiva che richiama la Laudato Sì’ di Papa Francesco, il cui messaggio è chiaro: tutto è connesso. Per questo la salvaguardia del creato riguarda ciascuno di noi».
A rischio la pesca artigianale
Non tutta la pesca è uguale, a cominciare dai metodi di cattura fino ad arrivare alle conseguenze sull’ambiente e sugli stock ittici. I dati sul settore pesca in Italia, pubblicati a ottobre del 2024 sul sito della Camera dei Deputati, rivelano che la flotta da pesca italiana operante nel Mediterraneo è per il 71% composta da imbarcazioni che praticano la pesca artigianale, cioè di lunghezza inferiore a 12 metri e stazza lorda sotto alle dieci tonnellate, prive di attrezzi trainati e che navigano entro le venti miglia dalla costa. Ma se si guarda al numero di catture e al loro valore economico, il quadro è ben diverso: dominano la pesca a strascico e i rapidi, che, con 37.600 tonnellate, contribuiscono per il 28% alle catture della flotta nazionale, percentuale che aumenta al 43% con riferimento al valore della produzione. Tecniche che catturano in maniera indiscriminata esemplari giovani e adulti, incrinando la catena riproduttiva e distruggendo fondali, habitat marini e biodiversità acquatica.
Da tempo, Slow Food ha avviato un percorso di promozione della piccola pesca artigianale: lo dimostrano i tanti Presìdi avviati in diverse aree d’Italia che tutelano non soltanto specifici pesci o molluschi, ma tipologie di cattura: dalla Liguria (nel golfo di Noli) alla Sicilia (nel golfo di Selinunte e sullo Stretto di Messina), dalla Toscana (Isola del Giglio e laguna di Orbetello) alla Puglia (Torre Guaceto, Secche di Ugento e Porto Cesareo), fino al lago Trasimeno.
«I pescatori artigianali sono pochissimi e vivono grandi difficoltà perché non c’è più pesce nel Mediterraneo ed è mancato il ricambio generazionale che avrebbe potuto garantire un futuro a questo mestiere» sostiene Gaetano Urzì, portavoce dei pescatori che aderiscono al Presidio Slow Food della masculina da magghia, nel Golfo di Catania. In effetti, le stime raccontano che circa il 40% dei giovani che hanno il padre o il nonno pescatori decide di fare un altro mestiere, e che l’età media oggi sia di oltre cinquant’anni.
Anche la politica – per certi versi in maniera comprensibile – tende a disincentivare la pesca: alcune normative hanno favorito la rottamazione dei pescherecci e oggi, nel Mediterraneo, le catture consentite sono limitate. È il tentativo disperato (che deve fare i conti anche con chi pesca in maniera illegale e non rispettando i periodi di fermo) di ripopolare il mare, dopo decenni di sovrasfruttamento. Ma il problema non è soltanto quello: le temperature si alzano e le popolazioni di pesci che per secoli hanno popolato i nostri mari faticano a trovare le condizioni per rimanerci, venendo sostituite da specie aliene.
Idee per il futuro
Che cosa fare, dunque? Secondo Urzì, il pescatore del futuro deve essere polivalente: «Non può più limitarsi a uscire in mare, tirare le reti e vendere quel poco che ha preso per sopravvivere. La pesca deve diventare un quinto della sua attività quotidiana – sostiene – mentre nel resto del tempo il pescatore deve portare avanti altri progetti che lo trasformino in un guardiano del mare. Può occuparsi, ad esempio, di turismo consapevole, valorizzando le risorse naturali e paesaggistiche delle coste».
Gli esempi non mancano: tra i produttori che aderiscono al Presidio Slow Food della piccola pesca di Porto Cesareo c’è Barbara Orlando, pescatora che da anni esce in mare con il marito. «Da metà settembre a metà giugno facciamo pesca professionale e lavoriamo con una cooperativa che serve una pescheria della zona, il resto dell’anno facciamo pescaturismo: portiamo i turisti in barca con noi, forniamo loro la canna da pesca e l’esca, li aiutiamo e poi, con quello che hanno pescato, prepariamo una frittura da assaggiare a bordo dell’imbarcazione». Gli uni trascorrono una mezza giornata in mare diversa dal solito, avvicinandosi a un mestiere a rischio d’estinzione ma che rimane fondamentale anche per diffondere una consapevolezza ai consumatori sul consumo delle risorse del mare; gli altri trovano una preziosa fonte di integrazione al reddito: «Il pescaturismo ci aiuta molto a far quadrare i conti – ammette –. Nel bilancio complessivo, pesa più del 60%: se non ci fosse, fare il pescatore sarebbe difficile». Il bello? Che avvicinarsi a questo mestiere non è impossibile: Barbara faceva la parrucchiera e aveva un salone avviato. Il richiamo del mare, certamente amplificato anche dal fatto che il marito fosse già pescatore, l’ha convinta a cambiare vita: «Anche se non nasci pescatore, la passione può comunque crescere pian piano: se hai il mal di mare è un po’ difficile – conclude scherzando – ma per il resto si può fare, e si può cominciare anche con un’imbarcazione più piccola, senza dover investire una cifra eccessiva».