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Riceviamo da parte della Adam Smith Society e volentieri pubblichiamo la seguente nota: “Gli oceani sono stati la culla primordiale della vita, circa 3.8 miliardi di anni fa. Coprono oltre il 70% della superficie del globo, e rappresentano circa il 99% dello spazio vitale del pianeta, visto che la vita nei mari è stata trovata anche a profondità di svariate migliaia di metri; sotto il profilo del controllo climatico, assorbono oltre il 90% dell’eccesso di calore prodotto dall’attività umana (a fronte del 3% assorbito dalle terre emerse) così come circa il 38% dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo. La capacità di assorbimento del calore e della CO2 non è però infinita e l’aumento delle temperature prodotto dall’incremento delle emissioni di gas serra provoca rialzi nelle temperature superficiali dei mari, rendendo, oltre ad altri danni all’habitat marino, più violenti i cicloni e più frequenti i fenomeni a carattere alluvionale. Gli oceani possono anche contribuire grandemente alla produzione di un’energia pulita ed illimitata: lo sfruttamento delle maree (già utilizzato dieci secoli fa in Europa per muovere le pale dei mulini) e delle onde, del differenziale di gradiente termico – efficiente soprattutto nelle aree tropicali – fra l’acqua più tiepida della superficie e quella più fredda a profondità di circa 1000 metri, ed il differenziale fra la salinità dell’acqua dolce (dei fiumi che sfociano in mare) e dell’oceano sono fra i metodi che ottengono maggiore attenzione per trovare soluzioni alternative e complementari all’energia idroelettrica ed eolica. Peccato che finora gli oceani siano stati largamente ignorati o sottovalutati nelle soluzioni proposte per affrontare il cambiamento climatico. È difficile sottovalutare l’importanza degli oceani sotto ogni aspetto – economico, sociale, culturale oltreché climatico – ma nonostante l’ampia ricerca scientifica disponibile, le numerosissime iniziative dei più svariati organismi anche sovranazionali, le occasionali (forse troppo) campagne di stampa, pochi passi concreti ed efficaci sono in essere per evitare il progressivo deterioramento di questo habitat. Il degrado dell’ambiente marino è conseguenza diretta di un suo uso sempre più intenso per le attività umane: il principale mezzo di trasporto nel commercio internazionale è via mare (oltre il 90% dei beni scambiati, con volumi previsti in crescita di circa 3 volte di qui al 2050), la flotta è per lo più obsoleta (con un’età media di quasi 22 anni) e quindi con motori poco efficienti, nei mari sono localizzate circa 700 piattaforme petrolifere, in mare vengono pescate quasi 112 mln tonnellate di pesce, sui fondali ci sono circa 450 cavi per la trasmissione di dati per una lunghezza complessiva di 1.4 mln km e si stima che siano state gettate in mare circa 269,000 tonnellate di plastica. Un aspetto particolarmente importante per ridurre il progressivo peggioramento dell’ambiente oceanico riguarda la salvaguardia della grande parte (circa il 60%) degli oceani che sono fuori ogni giurisdizione, cioè oltre le 200 miglia marine dalle coste dei vari Paesi (ABNJ – Areas Beyond National Jurisdisction). Negli ultimi 40 anni l’attività umana in queste aree è cresciuta a dismisura: si valuta che poco meno della metà della pesca industriale abbia luogo nelle ABNJ, e che il trasporto marittimo sia cresciuto nello stesso periodo di circa il 1600%1, mentre oltre un milione di km quadrati di fondali sono stati già identificati come idonei per esplorazioni finalizzate a possibili attività estrattive di minerali. Da parecchi anni c’è la consapevolezza che l’unico sistema per evitare gravi e rapidi peggioramenti si debbano creare zone protette (MPA – Marine Protected Areas), e dal 2016 la raccomandazione dell’IUCN (International Union for Conservation of Nature) è di raggiungere il 30% di MPA entro il 2030, incrementando l’obiettivo del 10% entro il 2020 indicato nel 2010 dalla Convention on Biological Diversity. Ma, attualmente, solo il 7.9% di tutti i mari è considerato ‘protetto’ dal Programma sull’Ambiente delle Nazioni Unite, con solo il 2.5% incluso in MPA ad alta protezione, mentre le stesse percentuali per le porzioni comprese nelle ABNJ è solo rispettivamente del 1.2% e dello 0.8%. In parte, le difficoltà di creazione di zone protette fuori dalle acque esclusive dei diversi Paesi è legata alla storica scarsità di dati affidabili relativi all’abbondanza ed alla distribuzione degli habitat e delle biodiversità, e della loro evoluzione, anche se più recentemente nuovi strumenti tecnologici aiutano a meglio identificare questi aspetti e l’impatto che il cambiamento climatico e l’attività umana – specialmente la pesca – hanno nelle ABNJ; un altro aspetto è legato alla carenza di meccanismi legali per imporre MPA unita alla difficoltà di controlli efficienti (il tracciamento dell’attività marittima è legato all’attivazione di transponder sulle navi che possono essere disattivati, o tramite immagini satellitari, molto costose). Il progressivo frazionamento delle varie aree di influenza dei principali Paesi, l’emergere di nuove potenze economiche, il potere ed una capacità decisionale in rapido e progressivo deterioramento dell’ONU mi sembra rappresentino un ostacolo sempre più grande per un’azione concreta nei confronti delle criticità che riguardano tutti. Dal 1995 si sono svolte COP annuali che hanno prodotto nella sostanza molti proclami, tonnellate di carte e buoni propositi, impegni non realistici ma utili a conquistare le prime pagine dei giornali ed a soddisfare l’opinione pubblica, ed obiettivi difficilmente realizzabili nei tempi indicati una volta che si comincia ad analizzarli in profondità; ma non sono riuscite a partorire almeno un accordo quadro giuridico che permetta il controllo ed il sanzionamento dei trasgressori. La salvaguardia degli oceani dovrebbe essere una priorità, ma nella babele delle conferenze annuali sul clima mi sembra che non sia davvero fra i punti principali, forse per la loro importanza politica, economica e geostrategica che suscita solo grandi egoismi di breve periodo. Ma gli oceani sono troppo importanti per rimanere le cenerentole del nostro problema esistenziale, nel senso letterale del termine”. a cura della redazione |