Nessuno, dalle singole persone fisiche, alle aziende, agli Stati sovrani può fare a meno del credito.
Ma è ovvio che chi presta denari desidera verificare anticipatamente la possibilità che il suo debitore sia in condizione di rendergli quanto dovuto e possa pagargli periodicamente la remunerazione adeguata, cioè gli interessi.
Non solo il prestatore vorrà avere informazioni nella fase istruttoria del finanziamento (compreso il track record passato del debitore prospettico), ma avrà anche bisogno di mantenersi aggiornato sugli sviluppi della situazione finanziaria del prenditore.
Se valutare la capacità di credito di una persona o di una piccola azienda può essere relativamente semplice (oggi anche grazie all’intelligenza artificiale, nonostante questa applicazione presenti qualche dubbio sul piano etico), molto più complesso è l’esercizio quando rivolto agli emittenti di obbligazioni scambiate sui mercati, tanto più necessario se l’acquirente di questi titoli è un piccolo risparmiatore che non ha le competenze analitiche ed i mezzi di reperimento dati delle grandi istituzioni.
Le Credit Rating Agencies – CRA sono società di consulenza sulla solvibilità che sintetizzano l’analisi effettuata sugli emittenti e sulle precedenti emissioni di obbligazioni in una specie di voto – il rating – esposto in una scala principalmente alfabetica (es.: AAA, Baa, …), che esprime un’opinione sulla qualità del debitore ed il rischio di una sua eventuale incapacità di rimborsare il prestito o di pagare regolarmente gli interessi.
John Moody pubblicò il primo rating manual nel 1909, che conteneva l’analisi ed i suoi “voti” su alcune dozzine di prestiti obbligazionari emessi dalle società ferroviarie, allora fra le più grandi aziende del mercato. Moody vendeva il suo manuale agli investitori, e fu seguito negli anni seguenti da Poor’s Publishing Company (1916), Standard Statistics Co. (1922) e Fitch Publishing Co. (1924).
Il successo di questa attività è stato dovuto anche al fatto che nel 1934, prima della creazione della SEC (Securities and Exchange Commission, l’ente regolatore del mercato finanziario americano), non era obbligatoria la diffusione da parte degli emittenti obbligazionari dei propri dati finanziari, costringendo gli investitori, soprattutto le piccole società di investimento ed i privati, ad acquistare da terzi le loro analisi.
Un punto di svolta per il successo delle CRA è intervenuto nel 1936, quando il regolatore bancario statunitense decretò che le obbligazioni di proprietà delle banche potevano essere valutate al costo solo se erano investment grade, cioè non speculative, secondo le evidenze dei recognized rating manuals (di fatto quelli pubblicati dalle tre società summenzionate), altrimenti i bonds dovevano essere valutati al prezzo di mercato.
L’obbligo di utilizzo dei rating manuals da parte delle banche commerciali ne allargò l’utilizzo ad altri investitori che volevano sapere in quali titoli i maggiori investitori sul mercato non potevano investire; più significativo il fatto che le autorità avessero delegato ad entità terze private la decisione su quale fosse un’obbligazione “sicura”, dando quindi al loro giudizio una patente di validità legale.
L’esempio del regolatore bancario venne seguito nei decenni successivi dall’autorità di controllo delle compagnie di assicurazione, e dal 1974 per i piani di investimento a beneficio definito dei fondi pensione. L’anno successivo anche la SEC adottò lo stesso principio per la valutazione del portafoglio obbligazionario degli operatori finanziari, ritenendo valido solo il rating delle CRA riconosciute dalla stessa autorità come nationally recognized statistical rating organizations (NRSRO); Moody’s, Standard & Poors e Fitch vennero immediatamente qualificate come NRSRO.
La decisione della SEC impose di fatto un’importante barriera all’entrata per nuove iniziative imprenditoriali nel settore del credit rating, anche se negli anni successivi nuove aziende ottennero la qualifica, senza tuttavia mutare nei fatti la dominanza nel mercato delle tre agenzie storiche.
Un altro cambiamento significativo intervenuto fra la fine degli anni ’60 e ’70 è stato il progressivo cambiamento del modello di business delle società di rating, passando da quello storico nel quale erano gli investitori a pagare le opinioni emesse dalle CRA a quello nel quale il costo del rating viene sostenuto dagli emittenti.
Le ragioni di questo cambiamento possono probabilmente essere ricondotte a due fattori: la grande diffusione delle fotocopiatrici in quegli anni permetteva una distribuzione, capillare (seppur illegale) delle opinioni fra gli investitori, minando di fatto la platea dei possibili acquirenti. Un’altra causa è da ricercarsi nel fatto che gli emittenti – se volevano avere i propri titoli nei portafogli istituzionali – erano obbligati ad ottenere una valutazione da una NRSRO.
Nonostante gli emergenti conflitti di interessi legati al nuovo modello di business – principalmente, la possibilità di pressioni da parte degli emittenti per ottenere ratings più favorevoli, minando l’indipendenza del giudizio delle CRA e mettendone in discussione la ricerca di un optimum reputazionale – fino all’inizio del nuovo secolo i commentatori erano abbastanza concordi nel sostenere che le principali agenzie riuscissero a tenere sotto controllo il conflitto di interesse con un buona governance e politiche retributive non legate all’aumento del giro d’affari.
Tuttavia, lo scandalo Enron (2001) evidenziò la lentezza nel ridurre i rating (poi particolarmente evidente all’alba della crisi dei debiti sovrani europei negli anni’10). Il progressivo aumento dell’inflazione nei giudizi, soprattutto su obbligazioni strutturate sempre più complesse emesse in concomitanza al boom immobiliare americano, e l’attività di consulenza su questi strumenti (nel 2006 il 40% dei ricavi complessivi di Moody’s), resero palese che il conflitto di interesse inficiava gli obiettivi dei provvedimenti degli anni ’70.
Sembra, inoltre, che l’indipendenza nei giudizi, oltre che dal conflitto di interessi, sia influenzata anche dall’esistenza di pregiudizi negli analisti, soprattutto – ma non solo – a carattere geografico nelle valutazioni dei Paesi sovrani (i ratings sono più elevati nella nazione dove ha sede la CRA e nelle nazioni culturalmente più simili, o dove le banche della stessa nazionalità delle CRA hanno un’elevata esposizione).
Ciò è particolarmente rilevante per i Paesi meno sviluppati nei quali il rating è anche uno dei criteri per attrarre investimenti diretti dall’estero, e dove un rating anche marginalmente inferiore a quanto un modello puramente econometrico suggerirebbe incide in maniera elevata sul costo complessivo del servizio del debito estero e quindi sulle disponibilità economiche per politiche di sviluppo e welfare.
Le CRA sono diventate protagoniste determinanti del mercato finanziario, permettendo un’informazione capillare al mercato, nonostante i loro limiti emersi durante la Grande Crisi Finanziaria in parte limitati da regolamenti sempre più stringenti, emessi negli anni successivi soprattutto da parte dell’Unione Europea.
Le tre agenzie statunitensi (S&P Global Ratings, Moody’s Investor Service e Fitch Ratings) sono un vero oligopolio concentrato: nel 2022 avevano una quota di mercato nella UE del 92,97% (nonostante le agenzie autorizzate siano 20), e la loro quota mondiale non si discosta da questa sbalorditiva percentuale; con buona pace della concorrenza.
Mi sorge quindi il dubbio che questi enti abbiano accumulato un potere eccessivo: operano come giudici sovranazionali emettendo opinioni di fatto vincolanti ed influenzando l’andamento non solo del mercato obbligazionario, ma delle economie (il downgrading di un Paese, o anche solo una messa sotto osservazione al ribasso, ne aumenta il costo del debito), del mercato azionario (l’effetto di un giudizio non positivo può causare ondate di vendite) e dell’operatività aziendale (per le eventuali revisioni delle linee di credito).
Ma penso che un potere affermatosi e consolidatosi nel corso di un secolo sia difficile da scalfire.”